il Labirinto. Se avesse ragione Umberto Eco

Se il perdersi è la condizione esistenziale dell’uomo, condizione a cui nessuno può, in alcun modo, sottrarsi, allora il labirinto è l’emblema perfetto di quella che è la nostra vita.

Non è un caso che da sempre il labirinto affascini l’uomo. Si pensi a Teseo, si pensi a Dante, si pensi all’Orlando furioso. Ma se all’interno di un mondo – quello greco, dove gli dei operano nell’immanente e sono una certezza del credere comune – esiste un filo, quello di Arianna, che è in grado di salvare l’eroe mitico mostrandogli la strada che lo porta alla libertà, e se in un altro mondo -quello medioevale e cristiano – esiste un Dio che muovendosi riconduce ogni uomo verso la salvezza, ecco, proprio questa salvezza non è più possibile se a perdersi è l’Orlando.

Quando il ghiaccio comincia a scricchiolare e ci si accorge che non erano solide certezze quelle su cui si poggiava i piedi, ma solo sottilissime lastre sull’orlo dell’istantanea e fatale frattura, ecco, è in quel momento che il labirinto diventa assai ingarbugliato, tanto da far sorgere il sospetto che una via d’uscita non debba necessariamente esserci. Ma è proprio quello il momento in cui il labirinto è metafora perfetta del nostro vivere, e allora il letterato -poeta o romanziere che sia – con un misto di stupore e paura prende l’immagine del labirinto, la fa sua e ce la racconta.

In Ariosto lo stupore prevale sulla paura, e se egli fosse un pattinatore, vedendo il ghiaccio sotto i suoi piedi farsi arabesco, di certo continuerebbe a danzare aspettando l’attimo fatale. Infatti nell’Orlando furioso il singolo castello di Atlante è il luogo in cui tutti cercano il vano, “e così stanno | che non si san partir di quella gabbia; | e vi son molti, a questo inganno presi, | stati le settimane intiere e i mesi.” (Canto XII, Ottava 12) e in ugual modo anche il mondo intero è labirintico, e l’uomo stesso non lo comprende e per questo arriva alla follia. Ma tutto è raccontato con una disarmante leggerezza e mai, in nessuna parola fra quelle migliaia di versi, si sente un lieve sintomo di oppressione o di ansia. In fin dei conti, seppur forzato e forse in stridente contrasto al resto del poema, il lieto fine arriva, e quel Dio relegato ai margini dell’opera ancora una volta si muove, e agisce per ridare a Orlando il senno che aveva perso.

Ma dopo il crollo dell’ultimo grande sistema, che a fatica riusciva a dare un senso all’esistere e che in qualche modo cercava di indicare la via di fuga per uscire dal labirinto, ovvero il sistema hegeliano, è la paura a prevalere sullo stupore e la tanto impalpabile ed eterea leggerezza sembra essere svanita per sempre. Nietzsche, il distruttore delle certezze, ha abbattuto morale, etica e quello stesso tradizionale sistema del sapere tanto affannosamente costruito. Ma ora, che resta?

Ansia. Ansia e poco altro. Un’ansia che si fa pesante e opprimente ne “Le città del silenzio” di Italo Calvino, in cui il labirinto non sembra garantire la possibile esistenza di una via d’uscita, e allora l’unica “domanda che adesso comincia a rodere nella tua testa è più angosciosa: fuori da Pentesilea esiste un fuori? O per quanto ti allontani dalla città non fai che passare da un limbo all’altro e non arrivi a uscirne?”. Forse l’uscita non c’è. Decisiva, in questa mia ultima affermazione, è la presenza del forse che non toglie del tutto la possibilità di salvezza, anche se la vita sembra essere, sempre di più, uno “scialo di triti fatti, vano più che crudele”, come ci dice Montale.

Chissà se mai ci sarà la possibilità di, passo dopo passo, districarsi tra i tortuosi sentieri angoscianti e bui, forse grazie a una fioca luce, quella della luna magari, o magari quella montaliana di “Piccolo testamento” che, per quanto debole, sarà forse in grado di mostrarci la strada. Possiamo solo sperare che non abbia ragione Umberto Eco. Perché? Vi starete chiedendo. Provo a spiegarlo.

Ne “Il nome della rosa” trovare l’uscita del labirinto sembra impossibile: “Non so bene spiegare come avvenne, ma come abbandonammo il torrione, l’ordine delle stanze si fece più confuso. Alcune avevano due, altre tre porte. Tutte avevano una finestra anche quelle che imboccavamo partendo da una stanza con finestra e pensando di andare verso l’interno dell’edificio. Ciascuna aveva sempre lo stesso tipo di armadi e di tavoli, i volumi in bell’ordine ammassati sembravano tutti uguali e non ci aiutavano a riconoscere il luogo con un colpo d’occhio”. Ne “Il nome della rosa” trovare l’uscita sembra impossibile, però non lo è. Infatti attraverso il tentativo di guardare il torrione dal cortile, ovvero guardare  il labirinto dall’esterno, si riuscirà a comprenderne la struttura, e la via d’uscita sarà possibile.

Ma noi non avremo mai la possibilità di vedere la nostra vita dall’esterno. Noi esistiamo solo in quanto dentro il labirinto. Fuori dal labirinto non esistiamo più, e se davvero l’unico modo di comprendere il labirinto è osservarlo dall’esterno, noi non lo potremo comprendere mai. Mai troveremo la via di fuga. Se avesse ragione Umberto Eco.

Jean