A che serve l’Italiano?

Studio in Italia, ma studio in lingua inglese, leggo e scrivo la maggior parte delle volte in lingua inglese,  comunico in lingua inglese e quando penso, penso in lingua inglese. Come ogni lingua, anche l’italiano è destinato a scomparire. Ed è del tutto ragionevole ipotizzare che tra italiano e inglese, sia la seconda che avrà vita più lunga. E allora, a che serve l’italiano?

Le lingue esistono per essere mutevoli. La scrittura è un’invenzione piuttosto recente rispetto alla nascita del linguaggio parlato. Di quest’ultimo, se n’è a lungo rivendicato – e tutt’ora se ne rivendica – l’unicità umana. Seppure questo sia parzialmente vero, in forma più rudimentale esso esiste in altre specie, dalle scimmie urlatrici agli scimpanzé, ma forse persino in altri mammiferi, al di fuori della famiglia dei primati. Dico questo per rimarcare la distanza temporale tra la nascita del linguaggio parlato (forse 200.000 anni fa, o forse 50.000) e la scrittura ( circa 3.500 anni fa). Per decine di migliaia di anni, dunque, si parlò senza lasciare traccia. Ma proprio la traccia che ancora la parola, marcarla su un muro, su un foglio o su una pergamena e dire: si scrive così, si pronuncia così. Ma senza ancore ci ritroviamo scossi tra le onde di un mare aperto, nello spazio dell’infinita mutevolezza. Da una generazione all’altra, un linguaggio poteva subire profonde trasformazioni, e nel giro di poche generazioni, scomparire. Il linguaggio non è fatto per rimanere uguale a se stesso, non è nella sua natura. Tant’è che nemmeno l’introduzione della scrittura è riuscita ad impedire che diversi linguaggi si susseguissero, indomabili.

Eppure l’Italiano serve. Non serve al mondo, non serve al futuro, non serve forse nemmeno al mio lavoro, ma serve a me. Mi serve perché l’italiano è il mio posto. Mi spiego meglio. Prima di nascere, i bambini nell’utero possono distinguere la loro lingua madre da ogni altra lingua. E quando nascono, i bambini non piangono tutti allo stesso modo. Ogni bambino piange nella sua lingua. Piange seguendo la prosodia (ovvero l’intonazione, la cadenza e la melodia) della sua lingua. La nostra lingua è radicata in noi in modo estremamente profondo. La nostra lingua è parte di noi. Ed è per questo che nessuna poesia sarà mai bella quanto lo è una poesia scritta in italiano, e nessuna romanzo sarà mai più soddisfacente di un romanzo scritto in italiano.

E così, quando sono stanco, la sera, prima di dormire, dopo una giornata passata immerso in una lingua che non è la mia, mi sento forestiero in un continente che non mi appartiene. Non riconosco i ricami dell’orizzonte, non vedo le mie montagne, e nemmeno l’aria ha lo stesso sapore. Ed è per questo che sento profondo e istintivo il bisogno di tornare. E allora apro un libro di Montale e ne leggo qualche pagina a caso, non metodicamente dall’inizio alla fine, perché come mi insegnò al liceo il mio professore, è così che si leggono i libri di poesie. E lo amo. E mi sento al mio posto. L’Italiano mi serve per questo, perché è aggrovigliato tra le circonvoluzioni della mia mente ed è incastrato nel profondo delle mie viscere. Ci appartiene.

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P.S. Ogni informazione riportata non è stata inventata di sana pianta, ma è frutto di ricerche che sono state pubblicate e sono reperibili su riviste scientifiche. Non ho inserito citazioni perché il mio scopo era proporre una riflessione, non un argomentazione scientifica. In ogni caso, se siete interessati, scrivetemi. Sarò felice di condividere le citazioni con voi.

Jean Durante