A che serve l’Italiano?

Studio in Italia, ma studio in lingua inglese, leggo e scrivo la maggior parte delle volte in lingua inglese,  comunico in lingua inglese e quando penso, penso in lingua inglese. Come ogni lingua, anche l’italiano è destinato a scomparire. Ed è del tutto ragionevole ipotizzare che tra italiano e inglese, sia la seconda che avrà vita più lunga. E allora, a che serve l’italiano?

Le lingue esistono per essere mutevoli. La scrittura è un’invenzione piuttosto recente rispetto alla nascita del linguaggio parlato. Di quest’ultimo, se n’è a lungo rivendicato – e tutt’ora se ne rivendica – l’unicità umana. Seppure questo sia parzialmente vero, in forma più rudimentale esso esiste in altre specie, dalle scimmie urlatrici agli scimpanzé, ma forse persino in altri mammiferi, al di fuori della famiglia dei primati. Dico questo per rimarcare la distanza temporale tra la nascita del linguaggio parlato (forse 200.000 anni fa, o forse 50.000) e la scrittura ( circa 3.500 anni fa). Per decine di migliaia di anni, dunque, si parlò senza lasciare traccia. Ma proprio la traccia che ancora la parola, marcarla su un muro, su un foglio o su una pergamena e dire: si scrive così, si pronuncia così. Ma senza ancore ci ritroviamo scossi tra le onde di un mare aperto, nello spazio dell’infinita mutevolezza. Da una generazione all’altra, un linguaggio poteva subire profonde trasformazioni, e nel giro di poche generazioni, scomparire. Il linguaggio non è fatto per rimanere uguale a se stesso, non è nella sua natura. Tant’è che nemmeno l’introduzione della scrittura è riuscita ad impedire che diversi linguaggi si susseguissero, indomabili.

Eppure l’Italiano serve. Non serve al mondo, non serve al futuro, non serve forse nemmeno al mio lavoro, ma serve a me. Mi serve perché l’italiano è il mio posto. Mi spiego meglio. Prima di nascere, i bambini nell’utero possono distinguere la loro lingua madre da ogni altra lingua. E quando nascono, i bambini non piangono tutti allo stesso modo. Ogni bambino piange nella sua lingua. Piange seguendo la prosodia (ovvero l’intonazione, la cadenza e la melodia) della sua lingua. La nostra lingua è radicata in noi in modo estremamente profondo. La nostra lingua è parte di noi. Ed è per questo che nessuna poesia sarà mai bella quanto lo è una poesia scritta in italiano, e nessuna romanzo sarà mai più soddisfacente di un romanzo scritto in italiano.

E così, quando sono stanco, la sera, prima di dormire, dopo una giornata passata immerso in una lingua che non è la mia, mi sento forestiero in un continente che non mi appartiene. Non riconosco i ricami dell’orizzonte, non vedo le mie montagne, e nemmeno l’aria ha lo stesso sapore. Ed è per questo che sento profondo e istintivo il bisogno di tornare. E allora apro un libro di Montale e ne leggo qualche pagina a caso, non metodicamente dall’inizio alla fine, perché come mi insegnò al liceo il mio professore, è così che si leggono i libri di poesie. E lo amo. E mi sento al mio posto. L’Italiano mi serve per questo, perché è aggrovigliato tra le circonvoluzioni della mia mente ed è incastrato nel profondo delle mie viscere. Ci appartiene.

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P.S. Ogni informazione riportata non è stata inventata di sana pianta, ma è frutto di ricerche che sono state pubblicate e sono reperibili su riviste scientifiche. Non ho inserito citazioni perché il mio scopo era proporre una riflessione, non un argomentazione scientifica. In ogni caso, se siete interessati, scrivetemi. Sarò felice di condividere le citazioni con voi.

Jean Durante

La leggerezza, la pesantezza e l’arte dello stare nel mezzo

“Che cosa dobbiamo scegliere, allora? la pesantezza o la leggerezza?”

Questa è la domanda che Kundera si pone all’inizio de L’insostenibile leggerezza dell’essere. E qualche riga più avanti aggiunge: “l’opposizione pesantezza-leggerezza è la più misteriosa e la più ambigua tra tutte le opposizioni”.

Su quest’ultima affermazione aveva ragione, ma la precedente domanda è forse mal posta, in quanto ritengo che non possiamo scegliere: esistono persone pesanti e persone leggere, le prime non possono diventare leggere, le seconde non possono diventare pesanti. Ma forse è meglio, prima di ogni altra riflessione, esplicitare che cosa io intenda per pesante e cosa per leggero.

Pesantezza e leggerezza sono due modi diversi di porsi nei confronti della vita. Kundera non è in grado di definirli, e dunque non è dal suo scritto che trarrò le loro definizioni. Le trarrò invece dal libro “Lo zen e l’arte della manutenzione della motocicletta” di Robert Pirsig, il quale non parla di pesantezza e leggerezza, ma rispettivamente di intelligenza classica e intelligenza romantica. Sono questi però due modi differenti di dire la stessa cosa.

Le persone leggere si affidano soprattutto all’ispirazione, all’immaginazione, alla creatività e all’intuizione. I sentimenti predominano sui fatti. Sono i leggeri che amano opporre l’Arte alla Scienza. Non procedono secondo ragione o in base a leggi precise. Si lasciano guidare dal sentimento, dall’intuizione, dalla sensibilità estetica.
Le persone leggere tendono verso l’alto, e proprio in un senso calviniano “leggerezza non è superficialità, ma planare sulle cose dall’alto, non avere macigni sul cuore”.
Le persone leggere devono trovare la bellezza in ogni cosa.

Benché lo spirito pesante comporti una certa bruttezza superficiale, questa bruttezza non gli è intrinseca. Possiede una razionalità così sottile che spesso agli spiriti leggeri sfugge. Lo spirito pesante è diretto, disadorno, economico e accuratamente proporzionato. Il suo scopo non è quello di ispirare emozioni, ma di creare l’ordine nel caos e di svelare l’ignoto.
Le persone pesanti tendono verso il profondo.
Le persone pesanti devono trovare il senso in ogni cosa.

Solo una persona pesante può arrovellarsi nel tentativo di dividere le persone in pesanti e leggere e cercare di determinare quali siano le caratteristiche di ognuna di queste due categorie. Di conseguenza sì, io sono una persona pesante.

Tralasciando questo, voglio andare a riprendere il già accennato punto cruciale della mia riflessione: non possiamo scegliere se essere pesanti o leggeri, lo siamo e basta. Ma né lo spirito leggero né lo spirito pesante sono due modi ottimali di porsi alla vita. Entrambi hanno le loro debolezze, i loro limiti. I primi rischiano di sconfinare nell’irrazionalità e di diventare imprevedibili perfino a loro stessi o indegni di fiducia o interessati solo alla ricerca del piacere; i secondi corrono il pericolo di cadere nell’iper-razionalità, in cui tutto deve essere misurato e dimostrato, e così tutto si fa opprimente, di un grigiore senza fine.

E così i primi finiscono per svanire perché troppo leggeri e i secondi per sprofondare perché troppo pesanti.

Posta in questi termini, la mia riflessione sembra essere una mera e pessimistica constatazione del fatto che, in un modo o nell’altro, siamo condannati a perderci, siamo condannati all’infelicità o – nella più fortunata delle ipotesi – a una felicità effimera. Effettivamente tale riflessione sarebbe consona a uno spirito pesante, ma la mia è differente, va oltre. Io credo che esista una via di fuga, e che più precisamente la via di fuga sia l’amore. Cercherò di spiegarmi. Di che cosa ha bisogno una persona pesante, se non di leggerezza? E una persona leggera di che cosa ha bisogno, se non di pesantezza? Ecco perché io credo che tra una persona pesante e una persona leggera ci sia un intimo, reciproco bisogno. Entrambe doneranno le proprie qualità, e queste qualità saranno in grado di colmare i difetti dell’altra. Non solo: entrambe potranno, reciprocamente, vedere il mondo riflesso negli occhi dell’altra, e scopriranno con stupore che è profondamente, meravigliosamente differente. Capiranno forse che la ricerca della bellezza e la ricerca del senso non sono altro che due modi di ricercare la stessa cosa, perché quando una cosa è bella, tutto acquista un senso; quando una cosa è sensata, tutto diventa più bello. Riusciranno forse a cogliere la bellezza del senso e a comprendere il senso della bellezza. Arriveranno forse anche al di là di questo, oltre orizzonti che non ho mai avuto la fortuna di vedere. Questa fortuna spetta a pochi e io ne sono consapevole. Eppure solo a questo anelo ogni giorno, ad essere anche solo sfiorato da questa fortuna e a trovare, anche solo per un poco, una persona leggera, che mi sappia sollevare dalla pesantezza a cui inesorabilmente tendo. E così il nostro stare insieme sarà una mongolfiera, lei sarà il fuoco che ci spinge verso l’alto, e io, da parte mia, proverò ad essere il peso che ci mantiene verso il basso. Solo così voleremo a mezz’aria, e impareremo l’arte dello stare nel mezzo.

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Jean Durante

Ricordo – Montale

Lei sola percepiva i suoni
dei miei silenzi. Temevo
a volte che fuggisse il tempo
ostile mentre parlavamo.
Dopodiché ho smarrito la memoria
ed ora mi ritrovo a parlare
di lei con te, tra spirali di fumo
che velano la nostra commozione.
Ed è questa la parte di me che ritrovo
mutata: il sentimento, per sé informe,
in quest’oggi che è solo di rimpianto.

Questa poesia è tratta dai Diari Postumi. È una poesia molto semplice, eppure così difficile da commentare. Il costante tentativo, così presente in Montale, di scorgere il segno che possa essere la prova o anche solo l’indizio di un senso, è qui assente. Ma bisogna stare attenti: affermare che un senso non ci sia, è sbagliato. È più corretto affermare che il senso non c’è, ma c’è stato. Quale sia, lo dirò solo alla fine della mia riflessione, non perché io sia intenzionato a tenervi sulle spine, quanto piuttosto perché anche io, con voi, ci potrò arrivare solo poco a poco, sperando in una fortunata intuizione.

Forse la cosa migliore da fare è partire dall’inizio. Spezzettiamo la poesia, analizziamone ogni atomo. Lei. C’è una donna, come spesso in Montale. È a questa donna angelo, salvifica ma al tempo stesso bisognosa di essere salvata, che il poeta spesso si affida. Ma se altrove doveva essere salvata (Ti libero la fronte dai ghiaccioli) qui deve salvare, ed effettivamente lo fa. Sola. Dopo aver riletto questa parola, mi devo correggere, non solo deve salvare, ma è la sola a poterlo e a saperlo fare. La terza parola è fondamentale: percepiva è al tempo passato. Possiamo così comprendere che non solo Lei era la sola che poteva salvarlo, ma che lo ha già fatto. Sì, perché una persona è in grado di percepire i suoni dei tuoi silenzi solo se esiste un’intesa, una comprensione tanto profonda e inspiegabile tra quelle due persone che i loro due mondi silenziosi riescono a toccarsi, e forse a fondersi, diventare uno. Del resto lo stesso Montale diceva: “Accade che le affinità dell’anima
non giungano ai gesti e alle parole ma rimangano effuse come un magnetismo. È raro, ma accade”. Possiamo dunque asserire che percepire l’un l’altra i suoni del silenzio significhi comprendersi. E comprendere, che etimologicamente deriva da cum+prae+hed, in cui quest’ultima è una radice ariana, trae proprio da tale radice il suo significato: hed (o anche had, o hand) significa afferrare, abbracciare, tenere stretto. Ma qui è riflessivo: comprendersi significa “tenersi stretti insieme”. Tenersi forte per resistere al correre del tempo, a questo tempo che fugge. Ecco dunque che i vv. 4-5, nitida citazione oraziana, “Dum loquimur, fugerit invida aetas”, sono il necessario proseguo dei primi due.

Sono rimasto stupito dalla mole di parole che ho dovuto utilizzare per spiegare questi primi cinque versi. Una domanda è lecita: Montale ha pensato tutto quello che io ho detto, prima di scrivere? È possibile. È possibile che la sua decennale esperienza di riflessione e di poesia l’abbia portato a sviluppare un abilità tale da riuscire a trasformare in versi queste riflessioni, con una così perfetta semplicità. Esiste però un’altra possibilità, ed essa ci viene suggerita dal Wittgenstein, il quale dice: “Io penso di fatto con la penna, perché la mia testa spesso non sa nulla di ciò che scrive la mia mano”. Ecco dunque la seconda possibilità: Montale non ha mai concepito razionalmente quanto ha detto. Tale conoscenza era una conoscenza implicita, che risiedeva nel profondo della sua mente, e la sua penna l’ha fatta sgorgare direttamente dal profondo. In ogni caso, non cambia la sostanza: Montale l’ha scritta e ora è qui per noi, a darci qualche indizio su come muoverci a tastoni nel buio della nostra confusione.

Dal mio decisamente discutibile punto di vista, i successivi sette versi non valgono nemmeno un briciolo dei primi cinque. Nei primi cinque tutto ciò che di importante c’era da dire è già stato detto. I rimanenti sette non sono che lo strascico. Non commentarli sarebbe però un segno di ottusa pigrizia intellettuale, perché forse c’è in essi qualcosa di importante che ancora non sono stato in grado di cogliere. Proviamo a concentrarci nuovamente su alcune singole parole. Dopodiché. Questo avverbio implica lo scorrere del tempo e che in questo tempo trascorso qualcosa è cambiato. Ed effettivamente è così: Lei non c’è più. Lo si poteva già intuire dai verbi al passato dei primi cinque versi, ma qui è stato reso esplicito per sottolinearne la sua importanza. Ora. Ecco un altra determinazione di tempo. Il tempo presente è qui, come spesso in Montale, il momento in cui è doveroso constatare che, rispetto al passato, qualcosa si è perso. Eppure c’è il tentativo si recuperarlo: parlare di lei. Cercare, attraverso questo parlare, di riportarla alla mente, di riportarla in vita, di riportarla proprio accanto a sé, ora. Provare a tenerla stretta ancora una volta. Ma no. Il tentativo è fallimentare, e le spirali di fumo (che meravigliosa espressione!) sembrano esserne la constatazione. Commozione. Commozione è una parola difficile. Prima di tutto è meglio chiedersi: che significa? Non credo che questa volta sia necessario sviscerare il significato profondo e antico di questa parola: turbamento provocato nell’animo da sentimenti di affetto e accorato dolore, ecco tutto. È bello pensare a questi turbamenti velati dalle spirali di fumo. Un turbamento esteriore che ne copre uno più profondo, interiore, e che forse lo riproduce.

Mutata. Il tempo cambia le cose. Cambia anche le persone. Anzi cambiare queste ultime è forse più semplice, perché la loro essenza è, secondo il poeta ligure, costituita da sentimenti informi. Rimodellarli in parte o mutarli del tutto, stravolgerli, non è difficile per il tempo ostile. Oggi. Ecco ancora una volta una determinazione di tempo. Eppure l’ultimo complemento non mi è chiaro: “di rimpianto” si riferisce a “oggi” o a “sentimento”? Quest’oggi di rimpianto o questo sentimento di rimpianto? Se c’è una cosa che ho imparato, è che spesso in Montale, se qualcosa è ambiguo, è perché egli voleva che lo fosse. Probabilmente il complemento si può riferire a tutti e due i potenziali soggetti. Ma a pensarci bene, se si riferisse all’uno piuttosto che all’altro, ci sarebbe una differenza? Ripensiamo a quanto abbiamo detto. Il sentimento è così labile e informe da mutare con il tempo, esso muta costantemente. A ogni nuovo giorno, corrisponde un nuovo sentimento. I due sono strettamente correlati, sono talmente correlati che se il rimpianto è di oggi o è del sentimento provato quest’oggi, non fa differenza.

Per ultimo, sposterei l’attenzione sul significato di quest’ultima parola, rimpianto. È un termine forte, è drammatico. È come aver finito il vino e cercare negli angoli della bocca un ultimo residuo del suo sapore. Implica l’impossibilità di recuperare ciò che del passato ci faceva stare bene. Il finale torna all’inizio: Lei. Ma se la sua presenza era il segno di un senso, era la salvezza, era il tenersi stretti, la sua assenza coincide con l’opposto: assenza di senso, perdizione, solitudine. In questo io non riesco ad essere d’accordo con Montale, non perché voglio un lieto fine a tutti i costi, ma perché ho forse una maggior fiducia nella memoria. Nulla può togliere che Lei ci sia stata. E se c’è stata, deve aver lasciato un segno. Comprendersi, ovvero tenersi stretti, stringersi forte, deve aver lasciato un qualche segno sull’animo del poeta. Deve aver mutato qualcosa, una volta per tutte. Forse è sufficiente essere salvati una sola volta, e non è necessario essere salvati costantemente, continuamente, ininterrottamente. Forse è sufficiente un solo segno.

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Riflessioni per una Poesia nuova

Credo che sia urgente affrontare un dibattito che troppo poco si è sviluppato negli ultimi anni. Vedo l’intero grande edificio della Poesia in una condizione pietosa e decadente. O forse anche questa mia ultima affermazione non è abbastanza vicina alla realtà. Ciò che percepisco sempre più chiaramente è che la Poesia non esiste più. Quella che viene oggi dichiarata poesia non è nemmeno lontanamente legata a quella che era la poesia del secolo scorso o dei precedenti. Credo che i motivi debbano essere ricondotti al contesto storico e sociale sviluppatosi negli ultimi anni, ma non è mia intenzione parlare in questa sede né di storia né di società. Vorrei concentrarmi non sulle cause dell’attuale crisi della poesia, ma sulla possibile alternativa per una poesia nuova.

Per fare questo tornerei indietro di qualche anno, in un recente passato, quando però il delitto non era ancora stato commesso e la poesia godeva di una discreta salute. Mi pare dunque opportuna un’attenta lettura di queste parole di Lawrence Ferlingetti (1958).

“Il tipo di poesia che ha fatto più chiasso qui è diversa dalla Poesia sulla Poesia, la poesia della tecnica, la poesia per i poeti e i professori che ha dominato le riviste e le antologie e che naturalmente si scrive anche a San Francisco. La poesia che si è fatta udire di recente è ciò che potrebbe essere chiamata “poesia di strada”. Perché consiste nel far uscire il poeta dal suo interiore santuario estetico dove troppo a lungo è rimasto a contemplare il suo complicato ombelico.
Consiste nel riportare la poesia nella strada dove era una volta, fuori dalle classi, fuori dalle facoltà e in realtà fuori dalla pagina stampata. La parola stampata ha reso la poesia silenziosa. Ma la poesia di cui parlo qui è poesia parlata, poesia concepita come messaggio orale. A volte è stata letta col jazz, a volte no… quello che importa è che questa poesia usa gli occhi e le orecchie come non sono mai stati usati per molti anni.”

Interiore santuario estetico. Queste sono le tre parole fondamentali, perché esemplificano alla perfezione quella che si è sempre più venuta a delineare come la figura del poeta. Il poeta appare come una persona misteriosa, oscura e imperscrutabile dall’esterno, ma dotata di una luce interna che nessuno può vedere (né tantomeno comprendere) la quale, comunque, è sacra e inviolabile. Tutto ciò che deriva da questa luce è sacro e immacolato. È il frutto della purezza interiore. È incontestabile.

Ma ovviamente questo tipo di poeta si definisce poeta incompreso. Nessuno riesce ad arrivare fino in fondo e vedere ciò che c’è nell’abisso della sua coscienza. L’unica cosa che dunque gli resta da fare è ritirarsi nel proprio angolo di universo e ripudiare il mondo esterno, non solo con rammarico, ma per di più con un misantropico ribrezzo.

La verità è che costui non è un poeta, ma semplicemente dice di essere tale. È un usurpatore. O più frequentemente un uomo che ha fallito nel suo tentativo di essere poeta. Il grande edificio della poesia si è dunque riempito di questi uomini e di queste donne che con grandi aspirazioni ma poca abilità hanno iniziato a fare i padroni in casa d’altri. Ci si chiede allora dove siano i reali padroni di questa poesia, i reali poeti. Essi, di fatto, non sono mai usciti di casa loro, ma la loro casa è così piena e la confusione è tanta e tale che è impossibile identificarli. L’errore dei poeti sta nel fatto che mai hanno cercato di emergere, sono rimasti in quella casa affollata da usurpatori.
Per il timore di non essere capito, uscirò da questa metafora: in un mondo dove dominano la sottocultura e la sovrapproduzione (non economica, sia chiaro, ma in questo caso prettamente letteraria) è facile che quel poco di giusto e lodevole che sia stato fatto, venga sommerso dal resto e dimenticato. Di conseguenza è paradossalmente più facile riscoprire un antico poeta di 1000 anni fa che scoprire ciò che il miglior poeta oggi esistente sulla faccia della terra ha appena pubblicato. La spazzatura è troppa.
Il vero poeta deve trovare una soluzione, non può continuare così. Chiedere a tutti di uscire di casa non avrebbe alcun senso, perché semplicemente non lo ascolterebbero. Ha perso quell’autorità che aveva, o più probabilmente non è mai riuscito a guadagnarsela. Non è in questa sede che svelerò la ricetta per una poesia nuova e perfetta, che finalmente riesca a ridare una dignità al vero poeta. Posso però proporre un primo passo, ed è quello che farò qui di seguito.

Ciò che vedo intorno a me è una poesia sempre più misteriosa e imperscrutabile, come già detto. In realtà solo gli incapaci, che nemmeno mi pare opportuno definire poeti, scrivono in modo misterioso e imperscrutabile. Questa soggettivizzazione della poesia sta sconfinando nel ridicolo. Arriveremo al giorno in cui ogni uomo si dichiarerà poeta e proporrà una poetica incomprensibile a chiunque altro all’infuori di se stesso. Sarà una babele poetica.

Uno dei più grandi psicologi sovietici, Vygotskij, ha delineato la differenza tra senso e significato. Il senso è un significato personale, è quel particolare significato che noi attribuiamo a una parola, noto solo a noi stessi. Il significato è invece condiviso, in quanto tutti lo comprendono. Oggi io vedo una poesia del senso. Vorrei che la poesia di domani fosse la poesia del significato.

Questo, si noti, non equivale a dire che la poesia debba piacere a tutti. La ricerca del consenso del grande pubblico non è necessaria, anche perché ho visto molti uomini e molte donne andare in questa direzione, intellettuali e letterati brillanti perfino, che per un po’ di successo si sono concessi a piccol pregio. Sono le prostitute della poesia. Per riprendere la metafora della casa, sono quei e quelle tali che se ne stanno nel vialetto appena fuori dalla casa della poesia, e la gente che passa, ingenua e disinformata, li indica, si cura di loro e dice: “quelli sono i poeti”. Lo dice in buona fede, ma sbaglia.

L’importanza sta nell’usare un linguaggio dotato di significato universale o, quantomeno, il più universale possibile. Un linguaggio semplice. Non è questa una novità. Già Aulo Gellio, nelle Noctes Atticae scriveva “imprimiti bene nella mente e nell’animo che, come un marinaio evita gli scogli, così tu devi evitare le parole strane e rare“. Lessi questa frase per la prima volta nel mio libro di latino al liceo, percepii subito il fatto che fosse importante e per questo la imparai a memoria. Solo ora ne comprendo appieno il motivo.
Comunque sia, di esempi come questi se ne possono fare molti, dispiegati lungo i secoli ma con lo stesso identico messaggio. Mi sia data la possibilità di ricordare la sentenza di Jack Kerouac “One day I’ll find the right words and they will be simple” [un giorno troverò le parole giuste e saranno semplici].
La semplicità non deve però cadere nella banalità, ed è questo il punto più delicato di tutta la mia trattazione, qui arriva infatti il compito più difficile dell’aspirante poeta. Si potrebbe pensare che poco sopra io abbia definito come incapace il poeta che parla del suo misterioso abisso interiore. Quello che intendevo, però, è ben diverso: io dico che chi si arroga il diritto e l’onere di parlare del suo, così séguito a chiamarlo, “misterioso abisso interiore”, non è capace di farlo. Sbaglia, fallisce clamorosamente. Perché?

Perché utilizza il senso anziché il significato. Rende se stesso comprensibile a sé (e non c’è nulla di male in questo) ma non rende l’uomo comprensibile all’umanità. Di conseguenza, d’ora in poi chi si vorrà definire poeta dovrà scavare dentro di sé e spiegarsi in modo preciso, puntuale e soprattutto chiaro. Non sono le acque torbide che ci interessano. Il fondale di un mare profondo e in particolar modo quest’abisso, sono visibili solo in acque limpide. Spero che nonostante l’ulteriore metafora, il concetto sia chiaro: il senso rende incomprensibile ogni cosa, il significato la rende limpida. Questa è la strada da seguire.

Potrei essere accusato di ingenuità, e mi si potrebbe dire che è impossibile parlare in modo chiaro e puntuale di qualcosa di così complesso come l’abisso interiore dell’essere umano. Mi si potrebbe dire che nemmeno i grandi poeti ci siano riusciti e che persino Montale dicesse di “non chiederci la parola che squadri da ogni lato l’animo nostro informe”. Rispondo a queste critiche dicendo che non era compito di Montale riuscire in questo obiettivo. Montale ha scritto mezzo secolo fa, se non prima. Questo è il nostro nuovo compito e sicuramente non è facile. Ma non chiamatemi ingenuo se quello che in realtà vi chiedo è l’attuazione di un compito nuovo e difficile. Ma non impossibile. C’è chi nel corso dei secoli è riuscito in questo arduo compito: ci è riuscito Dante, ci è riuscito Gozzano, ci è riuscito Kerouac. Abbiamo grandi maestri. Dimostriamoci allievi all’altezza.

Facciamo dunque nostro questo consiglio: indaghiamo dentro noi stessi e cerchiamo di definire chiaramente ciò che siamo nel profondo. Se non riusciremo, avremo fallito in quanto poeti. Cerchiamo la parola che squadri da ogni lato l’animo nostro informe. Se non lo faremo, avremo fallito nel tentativo di costruire una nuova poesia.

E per primo lo dico a me stesso.

Jean Durante

Jack Kerouac – Inno

Inno

E quando mi hai mostrato il Ponte Di Brooklyn
Al mattino,
Ah, Dio,
E la gente che scivolava sul ghiaccio per strada,
due volte,
due volte,
due persone diverse
sopraggiunsero, andavano a lavorare,
Così serie e volenterose,
Col loro penoso Daily News
In pugno
Scivolarono sul ghiaccio e caddero
Entrambe nel giro di 5 minuti
E io scoppiai in un dirotto pianto
Fu allora che m’insegnasti a piangere, Ah
Dio, Quel mattino,
Ah, Tu
Con me appoggiato al lampione ad asciugarmi
Gli occhi,
gli occhi,
nessuno sapeva che avevo pianto
e poi che gliene fregava
ma Oh ho visto mio padre
e la madre di mio nonno
e le lunghe file di sedie
e gli astanti che piangevano e il morto,
Ahimè, sapevo che Tu Iddio
Avevi dei piani migliori di quello
Così qualsiasi sia il tuo piano per me
Spaccatore di maestà
Fa che sia un lampo
Una folgore
Fa che sia uno schioccar di dita
Riportami a casa dalla Madre Eterna
Oggi stesso
Sempre a tua disposizione
(e fino a quel dì)

Una mattina qualsiasi, probabilmente un lunedì, due poeti vagano per le strade gelide dell’immensa Brooklyn. Hanno passato più o meno tutta la notte rabbrividendo in quei loro cappotti enormi. Poco più in là un uomo vestito di tutto punto, camicia, giacca e cravatta, quotidiano appena comprato per qualche centesimo dal giornalaio all’angolo in una mano e caffè bollente nell’altra, frettolosamente cammina verso l’ufficio. Ha molto da fare oggi, deve firmare contratti, scriverne di nuovi e forse licenziare qualche impiegato non troppo zelante. D’un tratto il ghiaccio traditore lo fa scivolare a terra. Subito l’uomo si rialza, si guarda intorno sperando che nessuno l’abbia visto e riprende la sua strada, più frettoloso e più arrabbiato di prima. Jack Kerouac era lì proprio in quel momento. Di certo quell’uomo non avrebbe pensato di passare alla storia come quel tale che una mattina d’inverno del 1953 cadde in terra. Non l’avrebbe mai immaginato nemmeno l’uomo che cadde 5 minuti dopo, per colpa della stessa lastra traditrice.

Eppure quei due uomini, da quel giorno, sono diventati il simbolo dell’uomo perfettamente inserito in quella che è la società statunitense del secolo scorso e di quello presente, la società del consumo. Guardandoli, Kerouac scoppia in un incontrollabile pianto. Perché? Perché li vede prigionieri. Li vede come piccoli robot progettati per svolgere un preciso e specifico compito, che devono, senza se e senza ma, portare a temine. Li vede come vittime. Li vede come piccoli meccanismi di un grande, immenso organismo che è la società capitalista, e per di più probabilmente inconsapevoli di essere tali. Un filo d’erba non sa di far parte di un prato. Guardandoli, Kerouac prova un forte sentimento di compassione. Anzi, qualcosa di più e di diverso della compassione, perché se compatire significa patire insieme, qui invece il patimento è solo del poeta, e non dell’uomo d’affari. Lui è ignaro.

Il racconto di questo episodio occupa all’incirca la prima metà della poesia. Nella seconda metà la prosa spontanea prende il sopravvento. Kerouac scrive tutto ciò che gli passa per la mente, proprio mentre gli passa per la mente. Il suo pensiero va ai suoi familiari, a suo padre in particolare, che egli perse quando era solo un ragazzo e che mai riuscì a dimenticare. Suo padre che era un uomo molto simile a quei due, perché aveva messo tutto il suo impegno, tutto il suo tempo, ogni singolo giorno, per lavorare e far crescere i propri figli. E Jack che gli aveva dato in cambio? Poco, forse nulla. Tanto che prima di morire, il padre gli disse: -guarda che mani lisce che hai: è perché non fai un cazzo-. Fu molto dura. Ed ecco che proprio il flash di quel funerale si accende nella sua mente: le lunghe file di sedie e gli astanti che piangevano e il morto.

Ma infine Kerouac si rivolge a Dio. Pensando a quegli uomini così tristemente inariditi, che sembra abbiano perso l’anima, spera di non dover essere costretto a fare la stessa vita. C’è di più: comprende che non sarà mai in grado di fare quella stessa vita. Chiede allora a Dio che i suoi piani per lui siano differenti. Si mette a disposizione per una vita diversa e possibilmente migliore, una vita che non sia sprecata, ma che sia utile all’umanità intera. Si mette a disposizione come strumento, attraverso il quale Dio stesso possa operare. A volte nella beat generation un Dio sembra non esserci, altre volte invece, soprattutto in Kerouac, un Dio c’è ed è indispensabile perché tutto abbia un senso. Questo ne è un esempio.

Jack Kerouac

Jean