Ricordo – Montale

Lei sola percepiva i suoni
dei miei silenzi. Temevo
a volte che fuggisse il tempo
ostile mentre parlavamo.
Dopodiché ho smarrito la memoria
ed ora mi ritrovo a parlare
di lei con te, tra spirali di fumo
che velano la nostra commozione.
Ed è questa la parte di me che ritrovo
mutata: il sentimento, per sé informe,
in quest’oggi che è solo di rimpianto.

Questa poesia è tratta dai Diari Postumi. È una poesia molto semplice, eppure così difficile da commentare. Il costante tentativo, così presente in Montale, di scorgere il segno che possa essere la prova o anche solo l’indizio di un senso, è qui assente. Ma bisogna stare attenti: affermare che un senso non ci sia, è sbagliato. È più corretto affermare che il senso non c’è, ma c’è stato. Quale sia, lo dirò solo alla fine della mia riflessione, non perché io sia intenzionato a tenervi sulle spine, quanto piuttosto perché anche io, con voi, ci potrò arrivare solo poco a poco, sperando in una fortunata intuizione.

Forse la cosa migliore da fare è partire dall’inizio. Spezzettiamo la poesia, analizziamone ogni atomo. Lei. C’è una donna, come spesso in Montale. È a questa donna angelo, salvifica ma al tempo stesso bisognosa di essere salvata, che il poeta spesso si affida. Ma se altrove doveva essere salvata (Ti libero la fronte dai ghiaccioli) qui deve salvare, ed effettivamente lo fa. Sola. Dopo aver riletto questa parola, mi devo correggere, non solo deve salvare, ma è la sola a poterlo e a saperlo fare. La terza parola è fondamentale: percepiva è al tempo passato. Possiamo così comprendere che non solo Lei era la sola che poteva salvarlo, ma che lo ha già fatto. Sì, perché una persona è in grado di percepire i suoni dei tuoi silenzi solo se esiste un’intesa, una comprensione tanto profonda e inspiegabile tra quelle due persone che i loro due mondi silenziosi riescono a toccarsi, e forse a fondersi, diventare uno. Del resto lo stesso Montale diceva: “Accade che le affinità dell’anima
non giungano ai gesti e alle parole ma rimangano effuse come un magnetismo. È raro, ma accade”. Possiamo dunque asserire che percepire l’un l’altra i suoni del silenzio significhi comprendersi. E comprendere, che etimologicamente deriva da cum+prae+hed, in cui quest’ultima è una radice ariana, trae proprio da tale radice il suo significato: hed (o anche had, o hand) significa afferrare, abbracciare, tenere stretto. Ma qui è riflessivo: comprendersi significa “tenersi stretti insieme”. Tenersi forte per resistere al correre del tempo, a questo tempo che fugge. Ecco dunque che i vv. 4-5, nitida citazione oraziana, “Dum loquimur, fugerit invida aetas”, sono il necessario proseguo dei primi due.

Sono rimasto stupito dalla mole di parole che ho dovuto utilizzare per spiegare questi primi cinque versi. Una domanda è lecita: Montale ha pensato tutto quello che io ho detto, prima di scrivere? È possibile. È possibile che la sua decennale esperienza di riflessione e di poesia l’abbia portato a sviluppare un abilità tale da riuscire a trasformare in versi queste riflessioni, con una così perfetta semplicità. Esiste però un’altra possibilità, ed essa ci viene suggerita dal Wittgenstein, il quale dice: “Io penso di fatto con la penna, perché la mia testa spesso non sa nulla di ciò che scrive la mia mano”. Ecco dunque la seconda possibilità: Montale non ha mai concepito razionalmente quanto ha detto. Tale conoscenza era una conoscenza implicita, che risiedeva nel profondo della sua mente, e la sua penna l’ha fatta sgorgare direttamente dal profondo. In ogni caso, non cambia la sostanza: Montale l’ha scritta e ora è qui per noi, a darci qualche indizio su come muoverci a tastoni nel buio della nostra confusione.

Dal mio decisamente discutibile punto di vista, i successivi sette versi non valgono nemmeno un briciolo dei primi cinque. Nei primi cinque tutto ciò che di importante c’era da dire è già stato detto. I rimanenti sette non sono che lo strascico. Non commentarli sarebbe però un segno di ottusa pigrizia intellettuale, perché forse c’è in essi qualcosa di importante che ancora non sono stato in grado di cogliere. Proviamo a concentrarci nuovamente su alcune singole parole. Dopodiché. Questo avverbio implica lo scorrere del tempo e che in questo tempo trascorso qualcosa è cambiato. Ed effettivamente è così: Lei non c’è più. Lo si poteva già intuire dai verbi al passato dei primi cinque versi, ma qui è stato reso esplicito per sottolinearne la sua importanza. Ora. Ecco un altra determinazione di tempo. Il tempo presente è qui, come spesso in Montale, il momento in cui è doveroso constatare che, rispetto al passato, qualcosa si è perso. Eppure c’è il tentativo si recuperarlo: parlare di lei. Cercare, attraverso questo parlare, di riportarla alla mente, di riportarla in vita, di riportarla proprio accanto a sé, ora. Provare a tenerla stretta ancora una volta. Ma no. Il tentativo è fallimentare, e le spirali di fumo (che meravigliosa espressione!) sembrano esserne la constatazione. Commozione. Commozione è una parola difficile. Prima di tutto è meglio chiedersi: che significa? Non credo che questa volta sia necessario sviscerare il significato profondo e antico di questa parola: turbamento provocato nell’animo da sentimenti di affetto e accorato dolore, ecco tutto. È bello pensare a questi turbamenti velati dalle spirali di fumo. Un turbamento esteriore che ne copre uno più profondo, interiore, e che forse lo riproduce.

Mutata. Il tempo cambia le cose. Cambia anche le persone. Anzi cambiare queste ultime è forse più semplice, perché la loro essenza è, secondo il poeta ligure, costituita da sentimenti informi. Rimodellarli in parte o mutarli del tutto, stravolgerli, non è difficile per il tempo ostile. Oggi. Ecco ancora una volta una determinazione di tempo. Eppure l’ultimo complemento non mi è chiaro: “di rimpianto” si riferisce a “oggi” o a “sentimento”? Quest’oggi di rimpianto o questo sentimento di rimpianto? Se c’è una cosa che ho imparato, è che spesso in Montale, se qualcosa è ambiguo, è perché egli voleva che lo fosse. Probabilmente il complemento si può riferire a tutti e due i potenziali soggetti. Ma a pensarci bene, se si riferisse all’uno piuttosto che all’altro, ci sarebbe una differenza? Ripensiamo a quanto abbiamo detto. Il sentimento è così labile e informe da mutare con il tempo, esso muta costantemente. A ogni nuovo giorno, corrisponde un nuovo sentimento. I due sono strettamente correlati, sono talmente correlati che se il rimpianto è di oggi o è del sentimento provato quest’oggi, non fa differenza.

Per ultimo, sposterei l’attenzione sul significato di quest’ultima parola, rimpianto. È un termine forte, è drammatico. È come aver finito il vino e cercare negli angoli della bocca un ultimo residuo del suo sapore. Implica l’impossibilità di recuperare ciò che del passato ci faceva stare bene. Il finale torna all’inizio: Lei. Ma se la sua presenza era il segno di un senso, era la salvezza, era il tenersi stretti, la sua assenza coincide con l’opposto: assenza di senso, perdizione, solitudine. In questo io non riesco ad essere d’accordo con Montale, non perché voglio un lieto fine a tutti i costi, ma perché ho forse una maggior fiducia nella memoria. Nulla può togliere che Lei ci sia stata. E se c’è stata, deve aver lasciato un segno. Comprendersi, ovvero tenersi stretti, stringersi forte, deve aver lasciato un qualche segno sull’animo del poeta. Deve aver mutato qualcosa, una volta per tutte. Forse è sufficiente essere salvati una sola volta, e non è necessario essere salvati costantemente, continuamente, ininterrottamente. Forse è sufficiente un solo segno.

montale                                                                                                                                          Jean

Jack Kerouac – Inno

Inno

E quando mi hai mostrato il Ponte Di Brooklyn
Al mattino,
Ah, Dio,
E la gente che scivolava sul ghiaccio per strada,
due volte,
due volte,
due persone diverse
sopraggiunsero, andavano a lavorare,
Così serie e volenterose,
Col loro penoso Daily News
In pugno
Scivolarono sul ghiaccio e caddero
Entrambe nel giro di 5 minuti
E io scoppiai in un dirotto pianto
Fu allora che m’insegnasti a piangere, Ah
Dio, Quel mattino,
Ah, Tu
Con me appoggiato al lampione ad asciugarmi
Gli occhi,
gli occhi,
nessuno sapeva che avevo pianto
e poi che gliene fregava
ma Oh ho visto mio padre
e la madre di mio nonno
e le lunghe file di sedie
e gli astanti che piangevano e il morto,
Ahimè, sapevo che Tu Iddio
Avevi dei piani migliori di quello
Così qualsiasi sia il tuo piano per me
Spaccatore di maestà
Fa che sia un lampo
Una folgore
Fa che sia uno schioccar di dita
Riportami a casa dalla Madre Eterna
Oggi stesso
Sempre a tua disposizione
(e fino a quel dì)

Una mattina qualsiasi, probabilmente un lunedì, due poeti vagano per le strade gelide dell’immensa Brooklyn. Hanno passato più o meno tutta la notte rabbrividendo in quei loro cappotti enormi. Poco più in là un uomo vestito di tutto punto, camicia, giacca e cravatta, quotidiano appena comprato per qualche centesimo dal giornalaio all’angolo in una mano e caffè bollente nell’altra, frettolosamente cammina verso l’ufficio. Ha molto da fare oggi, deve firmare contratti, scriverne di nuovi e forse licenziare qualche impiegato non troppo zelante. D’un tratto il ghiaccio traditore lo fa scivolare a terra. Subito l’uomo si rialza, si guarda intorno sperando che nessuno l’abbia visto e riprende la sua strada, più frettoloso e più arrabbiato di prima. Jack Kerouac era lì proprio in quel momento. Di certo quell’uomo non avrebbe pensato di passare alla storia come quel tale che una mattina d’inverno del 1953 cadde in terra. Non l’avrebbe mai immaginato nemmeno l’uomo che cadde 5 minuti dopo, per colpa della stessa lastra traditrice.

Eppure quei due uomini, da quel giorno, sono diventati il simbolo dell’uomo perfettamente inserito in quella che è la società statunitense del secolo scorso e di quello presente, la società del consumo. Guardandoli, Kerouac scoppia in un incontrollabile pianto. Perché? Perché li vede prigionieri. Li vede come piccoli robot progettati per svolgere un preciso e specifico compito, che devono, senza se e senza ma, portare a temine. Li vede come vittime. Li vede come piccoli meccanismi di un grande, immenso organismo che è la società capitalista, e per di più probabilmente inconsapevoli di essere tali. Un filo d’erba non sa di far parte di un prato. Guardandoli, Kerouac prova un forte sentimento di compassione. Anzi, qualcosa di più e di diverso della compassione, perché se compatire significa patire insieme, qui invece il patimento è solo del poeta, e non dell’uomo d’affari. Lui è ignaro.

Il racconto di questo episodio occupa all’incirca la prima metà della poesia. Nella seconda metà la prosa spontanea prende il sopravvento. Kerouac scrive tutto ciò che gli passa per la mente, proprio mentre gli passa per la mente. Il suo pensiero va ai suoi familiari, a suo padre in particolare, che egli perse quando era solo un ragazzo e che mai riuscì a dimenticare. Suo padre che era un uomo molto simile a quei due, perché aveva messo tutto il suo impegno, tutto il suo tempo, ogni singolo giorno, per lavorare e far crescere i propri figli. E Jack che gli aveva dato in cambio? Poco, forse nulla. Tanto che prima di morire, il padre gli disse: -guarda che mani lisce che hai: è perché non fai un cazzo-. Fu molto dura. Ed ecco che proprio il flash di quel funerale si accende nella sua mente: le lunghe file di sedie e gli astanti che piangevano e il morto.

Ma infine Kerouac si rivolge a Dio. Pensando a quegli uomini così tristemente inariditi, che sembra abbiano perso l’anima, spera di non dover essere costretto a fare la stessa vita. C’è di più: comprende che non sarà mai in grado di fare quella stessa vita. Chiede allora a Dio che i suoi piani per lui siano differenti. Si mette a disposizione per una vita diversa e possibilmente migliore, una vita che non sia sprecata, ma che sia utile all’umanità intera. Si mette a disposizione come strumento, attraverso il quale Dio stesso possa operare. A volte nella beat generation un Dio sembra non esserci, altre volte invece, soprattutto in Kerouac, un Dio c’è ed è indispensabile perché tutto abbia un senso. Questo ne è un esempio.

Jack Kerouac

Jean

Sylvia Plath, a particularly beautiful woman

Carl Jung disse che una donna particolarmente bella è una fonte di terrore, e probabilmente mentre lo diceva una qualche disturbata eco cavalcantiana arrivava ancora alle sue orecchie. Ma Jung aggiunse che una donna bellissima è una terribile delusione. Ciò che in altre parole egli sosteneva era che l’uomo, di fronte a una donna molto bella, ha, prima di tutto, paura, perché la vede come un obiettivo irrealizzabile, fuori dalla sua portata, ma dopo averla conosciuta egli rimane deluso. Deluso perché scopre che quella donna meravigliosa non è così perfetta come immaginava.

Sylvia Path

Sfortunatamente il fato non è stato con me abbastanza generoso da farmi conoscere Sylvia Plath, poetessa e scrittrice statunitense, perché forse sarebbe stata in grado di sfatare le parole pronunciate da Jung. Donna dalla bellezza pura e fragile, oltre al suo corpo meraviglioso, meravigliosa fu anche la sua anima. È quella donna che, mi imbarazzo a dirlo, rimpiango di non aver mai incontrato.

Un aggettivo capace di descriverla alla perfezione è sicuramente complicata, un altro è fragile. Era infatti una donna con una testa piena di pensieri, concetti, idee, paure, timori che si accumulavano gli uni sugli altri fino a rischiare di scoppiare. E il rischio divenne realtà la notte tra il 10 e l’11 febbraio del 1963, quando Sylvia, a soli 30 anni, sigillò con lo scotch ogni fessura della cucina nella quale si era chiusa, posò la testa all’interno del forno e aprì il gas. Ma Sylvia aveva in precedenza sigillato la camera dei suoi bambini affinché il gas non arrivasse fin lì, e lasciato accanto ai loro lettini il latte e il pane con il burro per la colazione.

Fu un atto folle ma al tempo stesso meditato e razionale. Fu un gesto di arroganza ma al tempo stesso di altruismo. Fu una dichiarazione non di odio nei confronti della vita, ma di maggior preferenza per la morte.

Amo Sylvia Plath e amo le sue poesie, come quella che vi voglio proporre, che io ritengo semplice, pura e sconvolgente al tempo stesso. Ma prima di ulteriori commenti, ve la faccio leggere. Qui troverete la traduzione in italiano.

I Am Vertical

But I would rather be horizontal.
I am not a tree with my root in the soil
Sucking up minerals and motherly love
So that each March I may gleam into leaf,
Nor am I the beauty of a garden bed
Attracting my share of Ahs and spectacularly painted,
Unknowing I must soon unpetal.
Compared with me, a tree is immortal
And a flower-head not tall, but more startling,
And I want the one’s longevity and the other’s daring.

Tonight, in the infinitesimal light of the stars,
The trees and the flowers have been strewing their cool odors.
I walk among them, but none of them are noticing.
Sometimes I think that when I am sleeping
I must most perfectly resemble them–
Thoughts gone dim.
It is more natural to me, lying down.
Then the sky and I are in open conversation,
And I shall be useful when I lie down finally:
Then the trees may touch me for once, and the flowers have time for me.

plath_smiling

Ora forse riuscite a capire perché ho detto che non odia la vita ma preferisce la morte. La morte come gesto di umiltà, nulla più. C’è forse qualcosa di malato in Sylvia nel comprendere che il mondo non è un posto adatto per lei? Che forse solo la morte può finalmente farla sentire a suo agio, può finalmente farla diventare un umile e fragile frammento di universo in pace e in armonia con tutto il resto? Insomma, c’è un qualcosa di malato nel credere che solo la morte può e deve essere la risposta? Forse sì, ma sicuramente c’è anche un fondo di perversa saggezza. Io non riterrò mai il suicidio una risposta valida, perché la vita è sacra sempre e comunque, ma rimango ogni volta esterrefatto e interdetto di fronte a queste sue parole perché io no, io non sono capace di arrivare a tanto. È una diversa forma di perfezione, è qualche cosa che va oltre la banalità della vita e che va oltre l’oblio della morte. È la perfezione dell’essenza.

O almeno così a me pare.

Jean

Molto chiare… – Franco Fortini

Molto chiare si vedono le cose.
Puoi contare ogni foglia dei platani.
Lungo il parco di settembre
l’autobus già ne porta via qualcuna.
Ad uno ad uno tornano gli ultimi mesi,
il lavoro imperfetto e l’ansia,
le mattine, le attese e le piogge.
Lo sguardo è là ma non vede una storia
di sé o di altri. Non sa più chi sia
l’ostinato che a notte annera carte
coi segni di una lingua non più sua
e replica il suo errore.
È niente? È qualche cosa?
Una riposta a queste domande è dovuta.
La forza di luglio era grande.
Quando è passata, è passata l’estate.
Però l’estate non è tutto.

Immaginate la scena. Un poeta è seduto su una panchina in un parco, e guarda le foglie cadere. Poi chiude gli occhi e inizia a pensare. Pensa alla quotidianità, a quella vita che giorno dopo giorno è già passata, pensa ai mesi che non torneranno più, se non nel ricordo. E nel suo passato il poeta non trova eventi eccezionali, singolari momenti di follia o istanti che vale la pena ricordare. No, non trova niente di tutto questo. Trova la semplice, a tratti banale, realtà del quotidiano, che giorno dopo giorno si ripete. Trova il lavoro, l’ansia, l’attesa. Trova anche se stesso, un ostinato poeta che la notte annera carte, ma non si riconosce. Non sa più chi è, risulta incomprensibile a se stesso, e non capisce la sua stessa lingua. Se dovessi descrivere in sole due parole lo stato d’animo di Fortini, direi che si sente in una “Babele interiore”. Potete immaginare la confusione di una città in cui ognuno parla una lingua diversa e incomprensibile? Ecco, lui quella città ce l’ha dentro.

Quando tutto è incomprensibile, difficile è trovare una soluzione. Immaginate di dover risolvere un problema di matematica. Un semplicissimo problema di matematica, come questo: ci sono tre carote e due patate, quante verdure ci sono in tutto?

È semplicissimo. Ma ora provate a risolvere quest’altro problema: तीन गाजर और दो ​​आलू सब में कितने सब्जियों रहे हैं, कर रहे हैं?

Non lo potete fare. A meno che non sappiate l’indiano, ovviamente. Ma quello che sto cercando di dire è che risulta difficile comprendere la realtà se non si hanno i mezzi  per farlo. E di conseguenza risulta facile commettere errori, se tutto è incomprensibile. Credo che sia questa la situazione in cui Fortini si sente di essere: sa di essere un uomo che ha bisogno di una visione chiara e coerente della realtà, ma sa anche che arrivare a questa chiarezza e a questa coerenza è troppo difficile, e commettere errori è troppo facile. Se riusciamo a comprendere appieno questo suo vitale ma insaziabile bisogno, possiamo forse comprendere ciò che Fortini, con questa sua poesia, vuole dire. In un mondo incomprensibile, una persona stupida può trovare quelle due o tre idee, o concetti o sicurezze capaci di tenerla, nonostante tutto, in piedi. Ma una persona intelligente, come Fortini è, si fa quella domanda che ogni uomo dovrebbe porsi: in un mondo incomprensibile, come posso comprendere quale senso io abbia, ammesso che ne abbia uno?

Una risposta a questa domanda è dovuta, dice Fortini e io ripeto. È dovuta. È un bisogno umano, io credo. È un bisogno come l’acqua e il cibo, come respirare e come il sesso. È l bisogno di coerenza.

Gli ultimi tre versi della poesia sono davvero difficili da comprendere. E io non credo sia un caso. Sono il finale perfetto di una poesia dove l’incomprensibilità del mondo e di se stessi è stata dichiarata. Io credo che questo finale sia un folle, estremo e forse disperato tentativo di comprendere la realtà. Utilizzare la parola, unico mezzo umano, ma rendendola incomprensibile, per comprendere l’incomprensibile del reale. Quest’ultima frase sembra un gioco di parole fine a se stesso, quasi tautologico, ma non è così. Se non avete capito cosa stavo cercando di dirvi, provate, per favore, a rileggere queste ultime righe. Con più calma. Vi chiedo scusa ma io meglio di così non riesco a spiegarmi.

Ma forse quest’ultimo paragrafo che avete appena letto è semplicemente sbagliato. Del resto quel che io sto cercando di fare è interpretare una poesia, e il che non è affatto semplice. Facile è sbagliare, e quella mia ultima riflessione potrebbe non essere altro che un errore, uno dei tanti. Ecco perché preferisco non terminare qui la mia riflessione, ma aggiungere una seconda, diversa interpretazione del finale, non necessariamente in contrasto con la prima.

La menzione di luglio è sicuramente collegata ai primi versi della poesia, dove si parla di settembre. Dunque il poeta, in un giorno di settembre, si siede e guarda le foglie cadere: sono i primi segni di un’estate che è finita. Insomma, la grandezza dell’estate è terminata, e ora se ne vedono gli ultimi segni. È la fine di un qualcosa di grande. Ora prendiamo queste riflessioni e applichiamole a quello che è il pensiero fortiniano. Fortini è comunista, e nel comunismo sono sicuramente presenti due valori: lotta alle altre ideologie, comprese quelle religiose, e credenza nel progressismo. Ora, io credo, molto probabilmente sbagliandomi, che con questa poesia Fortini sostenga che tutte le grandi ideologie e tutti i grandi concetti con cui era possibile dare un senso al reale, sia religiosi che filosofici, siano ormai inutilizzabili. Dunque la loro grande forza, come la forza dell’estate, sta lentamente finendo. Ma l’estate non è tutto, ovvero, il termine delle idee del passato non coincide con il termine di ogni possibile strumento di interpretazione e comprensione della realtà. Nella sua fede nel progressismo, Fortini, anche se ora è nella più completa confusione, è convinto che una nuova e grande era stia per cominciare, che, insomma, una nuova primavera possa ancora arrivare.

Concludo queste mie riflessioni con una puntualizzazione molto importante. Le mie idee sono assai diverse da quelle di Fortini, e ritengo la sua speranza come effimera e insensata. Nulla saprà darci quelle risposte che le idee e i concetti del passato, primi fra tutti quelli religiosi, sono in grado di darci. Se sono serviti migliaia di anni per arrivare a risposte (che io ritengo valide) preziose e indispensabili per comprendere chi siamo e quale senso abbiamo, credo che metterle in discussione non sia semplicemente una follia, ma un atto di estrema arroganza.

La Cina di Carlo Leidi

La Cina di Carlo Leidi

Jean